Il docu film di Netflix, una summa di castronerie da un disastro annunciato
L’idea di replicare uno dei festival più epici e mitizzati di sempre nacque per la volontà ed il desiderio di celebrare il 30esimo anniversario di Woodstock, che si svolse a Bethel, cittadina periferica ubicata nello stato di New York, dal 15 al 18 agosto 1969. Si trattò del momento più alto dell’epopea hippy, un raduno all’insegna di love, music and peace, tramandato ai posteri come qualcosa di irripetibile. Sarebbe stato meglio fosse rimasto tale. Se il documentario dedicato al Fyre Festival è il racconto di un festival mai nato, Woodstock ’99 è la narrazione di tutto quello che si possa sbagliare organizzando un raduno musicale. Un vademecum degli orrori, una tempesta perfetta, una percentuale di realizzazione del 100% di tutte le castronerie possibili ed immaginabili.
Tutto sbagliato, tutto da non rifare
‘Trainwreck: Woodstock ’99’ è la cronaca di un disastro annunciato, ben documentato grazie ad una serie di filmati d’epoca – agli statunitensi piaceva filmare tutto molto prima che arrivassero le tele e le fotocamere nei telefoni, basti pensare a The Last Dance – intervallati da recenti interviste agli organizzatori, ancora più o meno inconsapevoli della devastazione arrecata. Un documentario che fa pura cronaca, non emette giudizi, lascia che i fatti parlino da soli. E i fatti non consentono altro che una condanna senza appello. Qualche esempio? La scelta della location, un’ex area aeroportuale in cemento, i servizi igienici insufficienti, prezzi criminali per l’acqua, gli addetti alle pulizie pochi e per niente organizzati e soprattutto il personale della security raccattato senza alcun criterio selettivo, soggetti improbabili che rivendevano al miglior offerente le loro magliette e i loro pass. Un elenco di porcherie e misfatti che potrebbe continuare a lungo.
250mila presenze fuori controllo
Il risultato finale? Un contesto ambientale e organizzativo così scellerato unito a 250mila presenze fuoricontrollo, per alcuni addirittura 400mila. Se si può provare a sorridere – con estrema fatica – quando nel documentario si vede arrivare un furgone guidato da non si sa bene da chi dentro un hangar pieno di folla all’inverosimile, si resta davvero inorriditi quando si ascoltano i racconti di ragazze vittime di stupri, molestie e rapine, per tacere delle intossicazioni che molte persone si sono prese perché l’acqua potabile presente a Woodstock tanto potabile non era. Come se tutto ciò non fosse bastato, gli organizzatori pensarono di concludere il festival distribuendo una quantità industriale di candele per concludere la kermesse manco si fosse in chiesa a pregare: con queste candele tutto venne messo a ferro e fuoco. Il senso di angoscia che deriva da questo documentario è tremendo: non basta certo il conteggio dei morti (soltanto tre, stando alle cronache ufficiali) a mitigarlo.
Un festival non è uno scherzo
Organizzare e promuovere un festival è difficilissimo e complicatissimo: servono investimenti importanti – nell’ordine di milioni di euro o dollari – attenzione ad ogni dettaglio e soprattutto non si deve MAI giocare al risparmio. Meglio dieci baristi e dieci addetti alla sicurezza in più che in meno, facendo anche molta attenzione agli artisti che si propongono. A Woodstock ’99 si scelsero gruppi come Limp Bizkit e Rage Against the Machine, non proprio noti per i loro messaggi all’insegna del succitato love and peace, per tacere dei Red Hot Chilli Pepper, il cui bassista Flea suonò completamente nudo. I relativi video su YouTube sono tutt’ora sottoposti ad avvisi e a censure; nessuna colpa e nessuna responsabilità va ascritta chi si esibì sul palco di Woodstock, sia chiaro, ma la line up denota ulteriormente la poca conoscenza musicale di chi si trovò ad operare in un contesto del genere e certi comportamenti non possono che essere paradigmatici di una situazione completamente fuori controllo. Dettagli rispetto a tutto il resto, sia chiaro, per quello che fu disastro annunciato e non si trasformò in una tragedia epocale soltanto perché gli dei della musica in quel week-end decisero che ne avevano abbastanza. E chissà dall’alto dei cieli o dovunque si trovi adesso che cosa avrà pensato Jimi Hendrix, uno degli eroi se non l’eroe di Woodstock ’69, vedendo tutto questo…
(testo di Daniele Spadaro)